Persone in coda davanti a una showroom durante il Fuorisalone 2025 a Milano, nel distretto di Brera
Fuorisalone 2025: code infinite per un gadget nel pieno centro di Brera, mentre il design passa in secondo piano.

È finito ieri il Salone del Mobile e con lui il Fuorisalone, che ha trasformato Milano per una settimana in un centro pulsante di design, eventi e creatività. Restano ancora visitabili fino al 17 aprile le installazioni all’Università Statale di Milano e all’Orto Botanico di Brera, che fanno parte del circuito Interni. Ma per la maggior parte dei distretti, le luci si sono già spente, lasciando dietro di sé – come ogni anno – spunti, ispirazioni, ma anche qualche riflessione critica.

Il Fuorisalone è, da sempre, l’anima viva della Milano Design Week. Un evento diffuso che trasforma la città in un grande laboratorio creativo a cielo aperto, capace di attrarre designer, aziende, studenti, giornalisti e appassionati da tutto il mondo. È la settimana in cui Milano parla la lingua del design in ogni angolo, dalle università ai cortili nascosti, dai grandi brand ai piccoli artigiani. È il momento in cui la città mostra la sua capacità di innovare, ispirare, raccontare il futuro.

Eppure, dietro l’incanto, c’è un lato meno entusiasmante che ogni anno si fa sempre più evidente: le code. Non quelle per un’installazione iconica o per una lecture con un grande nome del settore. Ma quelle, lunghissime, che si formano davanti agli ingressi di eventi o showroom non per il contenuto, ma per il gadget.

Fuorisalone: Quando il gadget supera il progetto

Sempre più spesso, il Fuorisalone viene percepito come una gigantesca occasione per “fare la spesa gratuita” di borse, penne, taccuini, portachiavi, e – novità di quest’anno – persino sgabelli. Oggetti che diventano, in qualche modo, più attrattivi del contenuto stesso.

E a incentivare questa deriva sono persone che si definiscono “media” o “content creator”, che si presentano come normali visitatori davanti agli occhi degli spettatori, ma che in realtà sono parte di un sistema ben costruito, spesso sostenuto – ipotizzo o credo – da collaborazioni pagate profumatamente.
Entrano nei circuiti degli eventi non per raccontare l’esperienza, non per valorizzare il progetto, ma per ottenere visibilità personale e – soprattutto – per accumulare gadget, da mostrare online in “haul” giornalieri, da collezionare come trofei, da usare per aumentare l’engagement dei propri canali.
E va detto: queste persone hanno i numeri per orientare, persuadere, spostare l’attenzione. Non si tratta solo di curiosi, ma di profili seguiti, a cui spesso le aziende danno credito – e budget – pur di comparire nei loro contenuti.

E non finisce qui: molti di questi gadget, nati come articoli promozionali o simbolici, vengono rivenduti online a prezzi esorbitanti, come se fossero oggetti da collezione esclusivi. Alcune piattaforme vietano espressamente la vendita di questi articoli, ma ciò non impedisce che appaiano comunque, trasformando l’omaggio in profitto facile. È l’ennesima dimostrazione di come si stia perdendo il senso autentico di ciò che dovrebbe essere una condivisione culturale, non commerciale.

Questo comportamento si avvicina sempre di più alla logica del fashion gifting, una strategia di marketing in cui i brand regalano prodotti a content creator nella speranza di ottenere visibilità organica. Il valore non sta tanto nell’oggetto, quanto nella sua esposizione pubblica. Al Fuorisalone, questa dinamica si traduce in una forma di “gifting urbano”, dove il gadget diventa il vero protagonista, e il contenuto progettuale passa in secondo piano.

Il problema non è il gadget in sé. È la sproporzione che si crea: ore di attesa, folle disordinate, installazioni svuotate del loro senso originario. I veri protagonisti del Fuorisalone, quelli che ci lavorano, che ci studiano, che ne scrivono, che sono lì per dialogare e scoprire, spesso non riescono nemmeno ad accedere agli spazi, o devono farlo tra mille difficoltà.

Chi lavora davvero nel settore resta fuori

Negli anni passati, molti organizzatori facilitavano l’accesso agli operatori del settore, proprio per riconoscere il valore del loro lavoro e del loro tempo. Si trattava di architetti, designer, buyer, giornalisti: persone che non sono lì per una borsa, ma per aggiornarsi, per lavorare, per fare scouting.
Oggi invece, tutto appare più indistinto: conta chi arriva prima, o chi sa come posizionarsi in fila, meno organizzatori concedono priorità nelle file.

Sempre più spesso si assiste anche a un altro fenomeno: installazioni che non danno modo di visitare le mostre nemmeno ai professionisti del settore, con barriere d’ingresso poco chiare o mal gestite. A volte, dietro a queste dinamiche si nascondono ragazzi “buttafuori” dall’atteggiamento strafottente, con in mano quel briciolo di potere che gli è stato concesso per “gestire l’accesso”, ma che usano senza discernimento. Il risultato è che il vero pubblico interessato, spesso, si trova escluso, mentre l’attenzione è rivolta a chi crea più rumore o visibilità, non a chi cerca contenuto.

Chiedendo in giro, mi è stato anche riferito che in alcune installazioni non è stata data priorità alle persone disabili. Una scelta – o forse una dimenticanza – che fa riflettere, e che lascia un senso di amarezza. In un evento che parla di inclusività e innovazione, queste situazioni non dovrebbero accadere.

La Milano Design Week non dovrebbe trasformarsi in una caccia all’omaggio. Ogni esposizione è frutto di un lavoro creativo, tecnico, comunicativo. Ridurre tutto a una borsa in tela è svilente, soprattutto per chi ha progettato quell’esperienza. Eppure questo è ciò che sempre più spesso accade: contenuti di qualità messi in secondo piano da un marketing aggressivo, alimentato da numeri e like, più che da competenza e interesse reale.

E poi una domanda sorge spontanea: in un periodo in cui tutti dichiarano di non avere tempo, come mai queste file sono così piene anche nei giorni feriali e durante l’orario lavorativo? Che siano tutti disoccupati? O prendono ferie apposta per portarsi a casa un gadget? È un interrogativo che lascia spazio a molte riflessioni, anche sul modo in cui oggi si percepisce e si usa il tempo libero.

È legittimo che i brand si promuovano. È naturale che si offrano piccoli oggetti a ricordo di un’esperienza. Ma quando questo diventa l’unico vero motivo per cui tante persone partecipano a certi eventi, allora è giusto fermarsi a riflettere. Anche perché molti di quei “content creator” non fanno vera informazione, ma solo intrattenimento costruito su una narrazione consumistica, che poco ha a che vedere con il mondo del design.

Il Fuorisalone è un patrimonio. Per Milano, per chi lavora nel settore, per chi ama il progetto e la sperimentazione. Non lasciamo che venga banalizzato da dinamiche che nulla hanno a che fare con il suo spirito originale. Rimettere al centro il contenuto, il valore del lavoro, la qualità delle idee: questo è ciò che serve, oggi più che mai.

Non servono più borse, servono più contenuti.

E proprio per questo, voglio ringraziare tutti gli organizzatori che hanno permesso ai professionisti del settore – quelli che visitano per lavoro e non sono interessati a inutili gadget – di vivere una visita piacevole, fluida e rispettosa. Un grazie anche agli espositori che mi hanno invitato alle press preview e a coloro che, pur non essendo più in orario stampa, mi hanno comunque accolto e permesso di accedere: un gesto di attenzione che fa la differenza.

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